giovedì 1 luglio 2010

Lovegame


Composizione basata su “Lovegame” di Lady Gaga.

D’altronde, di questi tempi amare è un gioco.

Se ci fosse la possibilità di un attacco lento, un poco tipo l’inizio di “Alejandro”, mi concederei il lusso di far piangere il nostro eroe, il banale “Mister X” che tutti conoscete. È pesante vivere, soprattutto quando vivere consiste nell’evitare gli angoli d’ombra della propria vita. Comunque sì, è lui. Quello che in fondo in fondo sapevate che era frocio, ma che poi, cavoli, sarebbe meglio star zitti, no? Certe cose pesano.

Così quando attacca un bel “Let’s have some fun, this beat is sick …” il nostro tesoro si riterrà degno portatore del nome che lo contraddistingue. Gay, gioioso, felice. Siamo famosi per questo: la gioia continua, i commenti piccanti ed il buon gusto. Per cui direi di far aprire la scena con l’apertura delle gambe di una bella prostituta di colore raccattata dai viali.

Poi entra il nostro, pailettes e piume rosa a dirvi che è tutto così complicato: dover scopare con Tizio e Caio, ricordarsi che Giona è nato il nove Marzo e che siete fidanzati con Peppino e intanto aver la mano nel pacco di Mario … insomma, come si può vivere così? Per fortuna nel nostro video c’è un diversivo. Mentre la nostra vamp corre con la sua lingua lungo il petto villoso dell’ennesimo virgulto, un uomo coraggioso si da fuoco ( leggi Alfredo Ormando) davanti alle Stanze per ricordare al mondo che essere froci non è un party eterno. Ora ballano tutti assieme. Braccio destro, sinistro, destro. Tanto, qualunque sia la sponda a cui si cerchi di approdare, si arriva poco lontani. Una gamba in su. Ed intanto faccio il progressista per dovere, ma ho sempre più paura a baciarmi con il mio ragazzo in pubblico. E mentre una simpatica sospensione vocalica ci ricorda che Lady Gaga ha una mano sul “Oh!” noi vediamo un nostro compagno buttarsi dalla finestra, un altro esser pestato,qualcuno dire che non c’è nessun problema, qualcuno votar “Lega” e dire di amar suo figlio, qualcun altro dire che in fondo è meglio che averne uno drogato. Domattina forse qualcuno dei vostri amici entrerà in casa con un occhio nero, o non ci tornerà affatto.

lo vogliono morto in Iran, Arabia, Afghanistan, Nigeria ... ah, sì. Anche il tuo Vaticano (leggi l'intervento di Papa Ratzi contro la Moratoria contro la discriminazione omosessuale).

Costa di questi tempi, amare. Chi in questo periodo si nasconde dietro quattro pareti o dietro bugie pagate ha da fare il più grande “Mea culpa”. I drammi sono molti, gli atti unici.

Ah, dimenticavo. Dissolvenza nel finale.

sabato 26 giugno 2010

Certe volte non ci rimane che il silenzio


Gocciola. Sgocciola a terra, ma non subito. Prima scivola lungo la peluria sottile del petto, fino alla pancia gonfia di tutte quelle cose che il passato sa far fermentare. Accarezza la pelle, ne assaggia ogni ombra, perché è nell’ombra che si nasconde il motivo del suo essere. Circumnaviga l’ombelico, ne valuta la profondità, e poi accelera fino alla selva del pube, dove, da sola, non potrebbe farcela ma, accompagnata da chi verrà dopo di lei, un poco più greve ed un poco più antica, verrà spinta all’inizio del monte, e, da lì, fino alla cima triste che non potrà far altro che lasciarla cadere nel vuoto. E così quella dopo e quella dopo ancora.

Il sangue spilla e la tristezza ne è parte integrante, mentre qualcosa si perde in un ricordo che non è un ricordo. Qualcosa così tante volte pensato da essere parte integrante della mia memoria affettiva, più vivido nella follia del desiderio di tutte le immagini e le frasi e le parole del passato vero. Cancella la mia comunione, il mio diciottesimo compleanno, la mia fuga da casa e la prima volta. Si sovrappone agli amori più stantii, alle passioni bruciate, e a quelle impolverate dalla paura. Tutto è paura.

Comincia sempre così: ci sono due mani, le sue mani. Le unghie mangiate, le pellicine non curate, ma la stretta è sicura, sicura e tremante, come quella di chi ha sempre saputo cosa fare, ma non come farlo.

Sono mani di terra e di estate, mi afferrano il petto da dietro, si piantano al centro, ed il palmo stuzzica distratto i capezzoli, mentre la spinta mi trascina a lui. Sento il suo fiato sul collo, l’odore di caffè ed eccitazione, la pelle agitata, l’inguine umido ed il suo amore che cerca già una strada. Sento le ginocchia dentro il mio incavo, il suoi piedi che graffiano i miei talloni, lì, in piedi, davanti alla finestra del mondo. E quelle mani che salgono e scendono, costeggiano i fianchi e l’osso sporgente ed il tenero grasso del ventre, ma non vanno alla meta. Tornano e partono e tornano e non sanno come osare, mentre le labbra mi solleticano il collo, i capelli sono tenda dietro cui nascondere le paure. Si fa strada dentro di me, il colpo timido, come se non volesse far male, ed il calore turgido mi rassicura: siamo una sola cosa. “Non guardarmi”, dice. Ed io non lo guarderò, perché non c’è .

E poi, le dita, quelle dita che ho immaginato a lungo su tutto il mio corpo, affondano nella carne, ed il bruciore è piacere: e spezzano le ossa, e l’incrinarsi porta sollievo al dolore che ho dentro mentre mi penetra e scivola dentro di me: e quando le dita toccano il cuore l’anima è già pronta a scoppiare, come il suo seme nelle mie viscere.

Continuano a sgocciolare, dopo goccia goccia le sue lacrime dal mio petto, lungo un corpo freddo che non conoscerà mai amore.

martedì 22 giugno 2010

School night




Sono ossessionato da questa canzone, in tempi ciclici come quelli del mestruo, della luna, o delle cazzate dette da Gasparri.

Aldilà delle cavolate, mi chiedo come ci si senta ... come ci si senta ad amare qualcuno, sapendo che non è abbastanza.

Il tuo amore non è sufficiente.

Come sia svegliarsi ogni mattina, amando e soffrendo contemporaneamente.

Sei l’unico, tra i due, a sapere che quell'eternità avrà forse un tempo breve.

Quale senso di colpa possa attanagliarti, invischiato come sei dal bisogno di te e insieme dalla necessità dell’altro.

Si tratti solo (forse) della cattiva risposta alla domanda posta troppo tardi: fuso in questo, cosa rimarrà di me?

"School Night"

she went over to his apartment
clutching her decision
and he said, did you come here to tell me goodbye?
So she built a skyscraper of procrastination
and then she leaned out the twenty-fifth floor window
of her reply
and she felt like an actress
just reading her lines
when she finally said
yes. it's really goodbye this time
and far below was the blacktop
and the tiny toy cars
and it all fell so fast
and it all fell so far

and she said:
you are a miracle but that is not all
you are also a stiff drink and I am on call
you are a party and I am a school night
and I’m lookin' for my door key
but you are my porch light

and you'll never know, dear
just how much I loved you
you'll probably think this was
just my big excuse
but I stand committed
to a love that came before you
and the fact that I adore you
is but one of my truths

what of the mother
whose house is in flames
and both of her children
are in their beds crying
and she loves them both
with the whole of her heart
but she knows she can only
carry one at a time?
she's choking on the smoke
of unthinkable choices
she is haunted by the voices
of so many desires
she's bent over from the business
of begging forgiveness
while frantically running around
putting out fires

but then what kind of scale
compares the weight of two beauties
the gravity of duties
or the ground speed of joy?
Tell me what kind of gauge
can quantify elation?
What kind of equation
could I possibly employ?
and you'll never know, dear
just how much I loved you
you probably think this was
just my big excuse
but I stand committed
to a love that came before you
and the fact that I adore you
is just one of my truths

so I
I’m goin' home
to please the one I so love pleasing
and I don't expect
he'll have much sympathy for my grieving
but I guess that this is the price
that we pay for the privilege
of living for even a day
in a world with so many things
worth believing
in"

lunedì 21 giugno 2010

Riflesso

Davanti ad una finestra, ad un cancello socchiuso posso annullarmi per ore, sparire dal mondo senza nemmeno capire come.

Una luce molto calda, o l’angolo disordinato di una cucina. La penombra di un salotto e il riflesso della televisione in una stanza spenta fanno partire la mia testa per una tangente magnifica. Chi popolerà quegli spazi? Sarà solo? Cosa starà facendo?

Mi ritrovo sempre a credere che la vita dietro quel piccolo squarcio nell’ennesimo austero edificio sia più bella, più ricca di cose da dire, da raccontare della mia. A volte penso quasi di aver catturato una vibrazione, una frase, e quella frase si manifesta in quel momento tanto incomprensibile da dover nascondere obbligatoriamente qualche segreto salvifico per il mio di mondo. Come se ci fossero due pianeti: quello di chi può, e quello di chi osserva …

L’altra sera mi sono fermato a pochi metri da casa, davanti ad un bel terrazzo profumato di gelsomino, stoico nel freddo che ci ha di nuovo raggiunti. Una lampada a muro ombreggiava la stanza in una luce tiepida, e il brusio di una radio copriva il rumore del libro che l’uomo, che mi dava le spalle, leggeva sulla sua poltroncina. È rara a Firenze la possibilità di vedere qualcuno vivere casa sua quasi ad altezza del tuo sguardo. Così mi sono accucciato dall’altra parte della strada, ad osservare. Mi sono immedesimato nella voce narrante di un libro, il suo libro. Mi sono convinto di star osservando uno scrittore, un vero scrittore, uno di quelli che ti cambia il destino con una parola. Quello che stava ascoltando alla radio nella mia testa si è trasformato in una registrazione di Radio Londra, mentre il libro in mano … sì, deve essere per forza qualcosa sui partigiani! Bisogna parlare dei partigiani, di questi tempi, bisogna farsi trovare pronti! E quel cappello! Portava prima un cappello? Poco importa. La cosa fondamentale è che ora lo indossa, e gli copre così un poco gli occhi, ne sono sicuro. Il bavero rialzato, come se volesse difendersi anche lui dal freddo, ma, forte come il suo gelsomino … ha appena alzato la mano. Starà recitando forse la parte del suo protagonista? Del giovane ragazzo che la sua mente sta tratteggiando, in un tramonto promettente di fine di Aprile, quel ragazzo che, tra i gelsomini e il grecale e un torrente ingenuo, morirà cercando di raggiungere la sua Agnese, la sua dolce amata Agnese …

La mano ha invece acceso un’altra luce, lattiginosa e asettica, e dalla poltrona è scivolato un piccolo libro, qualcosa con una fotografia poco nobile. La radio ha interrotto il suo brusio per annunciare il mancato goal di qualche distratto calciatore.

È caduto qualcosa, ho subito questo rapido rovescio dell’irrealtà come una violenza. Ho raccolto i cocci, li ho messi al centro di un fazzoletto che ho poi ben ripiegato e scaldato, fino a quando le parole stasera per descriverlo non sono arrivate da sé. Il resto di quella serata e della mattinata seguente mi sono masticato la lingua nella domanda banale: quanto di quello che vivo nelle altre persone è reale?

venerdì 18 giugno 2010

Grigio

Grigio.

Il grigio non è un colore, è una condizione dell’animo, una comune inclinazione, una malattia che si diffonde con una nota, di testa in testa, di bocca in bocca, e porta tutto all'estremo opposto della vita.

Non parlo del grigio della nebbia, porto dell’anima. Né di quello che ci abbraccia quando siamo tristi o malinconici, regalandoci momenti di lirismo tragico ma vivo.

La bestia a cui mi riferisco è il grigio delle strade e dei grattacieli che si riflette in quello delle teste.

Il grigio nascosto dei cieli estivi, delle giornate di sole che non vediamo, delle ore che passano tutte uguali: non c’è mattina, non c’è sera. Il grigio del caldo e del freddo perpetuo. Il grigio dell’abitudine, della routine, della distrazione infinita, del non vedere quello che accade, del non ascoltare.

Il grigio di chi non pensa più con la sua testa. Ma è convinto di essere libero. Di chi passa le giornate ad ammirare le vite degli altri e non colleziona nemmeno un sentimento, uno soltanto, che possa essere veramente suo. Di chi ha tutti i giorni prestampati, di chi ha barricato il proprio petto contro nuove esperienze, di chi cammina sempre sulla stessa strada, di chi non si concede di sbagliare.

Il grigio di chi ha deciso di giustificare ogni sua scelta. Di chi si accorge che guidare un SUV è un’esperienza reale solo quando ammazza qualcuno. Il grigio di chi chiede rispetto e non porta rispetto. Quello di chi “tutti questi immigrati …”. Di chi crede che la politica non sia affar suo. Di chi ha deciso che vivere vuol dire cazzeggiare aspettando la morte.

L’Italia non è né verde, né rossa, né bianca. E’ ormai grigia in ogni suo atomo, fusa in un’oscena scultura di ventrigli d’animo. Morirà, forse lentamente, o magari dandoci l’illusione di una qualche ripresa.

Una cosa è certa: quando tirerà l’ultimo respiro, gli imbianchini responsabili di questo disastro saranno già su di un’altra barca, lontani.

Almeno che …