sabato 26 giugno 2010

Certe volte non ci rimane che il silenzio


Gocciola. Sgocciola a terra, ma non subito. Prima scivola lungo la peluria sottile del petto, fino alla pancia gonfia di tutte quelle cose che il passato sa far fermentare. Accarezza la pelle, ne assaggia ogni ombra, perché è nell’ombra che si nasconde il motivo del suo essere. Circumnaviga l’ombelico, ne valuta la profondità, e poi accelera fino alla selva del pube, dove, da sola, non potrebbe farcela ma, accompagnata da chi verrà dopo di lei, un poco più greve ed un poco più antica, verrà spinta all’inizio del monte, e, da lì, fino alla cima triste che non potrà far altro che lasciarla cadere nel vuoto. E così quella dopo e quella dopo ancora.

Il sangue spilla e la tristezza ne è parte integrante, mentre qualcosa si perde in un ricordo che non è un ricordo. Qualcosa così tante volte pensato da essere parte integrante della mia memoria affettiva, più vivido nella follia del desiderio di tutte le immagini e le frasi e le parole del passato vero. Cancella la mia comunione, il mio diciottesimo compleanno, la mia fuga da casa e la prima volta. Si sovrappone agli amori più stantii, alle passioni bruciate, e a quelle impolverate dalla paura. Tutto è paura.

Comincia sempre così: ci sono due mani, le sue mani. Le unghie mangiate, le pellicine non curate, ma la stretta è sicura, sicura e tremante, come quella di chi ha sempre saputo cosa fare, ma non come farlo.

Sono mani di terra e di estate, mi afferrano il petto da dietro, si piantano al centro, ed il palmo stuzzica distratto i capezzoli, mentre la spinta mi trascina a lui. Sento il suo fiato sul collo, l’odore di caffè ed eccitazione, la pelle agitata, l’inguine umido ed il suo amore che cerca già una strada. Sento le ginocchia dentro il mio incavo, il suoi piedi che graffiano i miei talloni, lì, in piedi, davanti alla finestra del mondo. E quelle mani che salgono e scendono, costeggiano i fianchi e l’osso sporgente ed il tenero grasso del ventre, ma non vanno alla meta. Tornano e partono e tornano e non sanno come osare, mentre le labbra mi solleticano il collo, i capelli sono tenda dietro cui nascondere le paure. Si fa strada dentro di me, il colpo timido, come se non volesse far male, ed il calore turgido mi rassicura: siamo una sola cosa. “Non guardarmi”, dice. Ed io non lo guarderò, perché non c’è .

E poi, le dita, quelle dita che ho immaginato a lungo su tutto il mio corpo, affondano nella carne, ed il bruciore è piacere: e spezzano le ossa, e l’incrinarsi porta sollievo al dolore che ho dentro mentre mi penetra e scivola dentro di me: e quando le dita toccano il cuore l’anima è già pronta a scoppiare, come il suo seme nelle mie viscere.

Continuano a sgocciolare, dopo goccia goccia le sue lacrime dal mio petto, lungo un corpo freddo che non conoscerà mai amore.

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